Storia, fatti e personaggis

Intitolazione della piazza di Forno Alto al Prof. Salvatore Curasì Capo d’Orlando 30 agosto 1997.

“IL MAESTRO BUONO”

Si riaccende oggi nella memoria, ad oltre trent’anni dalla scomparsa, la luce del ricordo dell’insigne Professor Salvatore Curasì; si riaccende con un gesto simbolico, con l’intitolazione di questa piazza, della piazza di Forno Alto, alla sua veneranda memoria, alla memoria di un uomo che dedicò la sua esistenza all’insegnamento, all’educazione dei fanciulli e dei giovani. Un ufficio, a cui il Curasì si accostò con profondo spirito di abnegazione, in virtù della sua concezione “sacra” della scuola e dell’istruzione.

Salvatore Curasì, nato a Capo d’Orlando il 15 giugno 1913, ultimo di quattro figli della famiglia di un valente artigiano del luogo, completati gli studi elementari si trasferì a Patti, ove ultimato il Ginnasio conseguì la Licenza Liceale Classica; successivamente si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Palermo. Nel novembre del 1935 fu chiamato a prestare il servizio militare come Tenente d’artiglieria nella stessa città, congedandosi nel maggio del 1937. Nello stesso anno si presentò agli esami di abilitazione magistrale conseguendo con successo il diploma di maestro. Qualche mese dopo partecipò al concorso magistrale. Risultando vincitore, tra i primi, fu assegnato presso la scuola elementare di Rocca di Caprileone, ove rimase per circa un anno, avendo ottenuto il trasferimento nel suo paese d’origine. In questi anni coniugò con molti sacrifici, lavoro e studi universitari; ma nel giugno del 1940 dovette, quasi prossimo alla laurea, abbandonare gli studi, poiché con l’entrata in guerra dell’Italia fu richiamato alle armi. Catturato dagli Inglesi in Africa, fu condotto in India, ove rimase per sei lunghi anni. Tornato dalla prigionia nell’agosto del 1946 riprese l’insegnamento, attività che lo accompagnò fino al 1966 (14 marzo), anno della sua prematura scomparsa.

Uomo di elevata statura morale ed intellettuale, il Curasì, nella sua vita, senti l’insegnamento non come mestiere o professione, ma come grande, nobile ed umile missione. La filosofia educativa che ispirava il suo operato, traspare nitidamente da una confidenza raccolta dal Poeta Ciccino Mancari, compagno di una vita, e amico fraterno del Curasì. Ricorda il Mancari: “Mi diceva il Curasì: Mio caro Ciccino, insegnare nelle “scuole elementari” è più difficile che insegnare all’università, perché all’università vi è un dibattito di sapere fra uomini adulti, mentre nelle scuole elementari abbiamo dei fanciulli che devono farsi – crescendo – uomini e pilastri della Nazione, e quindi, ciascun insegnante, ha il dovere di saper impartire delle vere verità, perché la mente del fanciullo è come un foglio di carta bianca, e ciò che vi si scrive è molto difficile poi cancellarlo… Il bambino non è altro che un vivaio che deve essere curato, bisogna farlo crescere alla luce del sole e non all’ombra, è questo il dovere di ogni insegnante cittadino onesto”. L’esperienza educativa del Curasì si sviluppa parallela a quella di un noto educatore cattolico, Don Lorenzo Milani, conosciuto anche con l’appellativo di “Priore di Barbiana”; molti sono i punti di contatto e le identità di pensiero e metodo che è possibile cogliere da un ideale raffronto. Per Lorenzo Milani, come per il Curasì, l’istruzione è sinonimo di libertà, di affrancamento dal bisogno, di affrancamento dall’ignoranza; la conoscenza, la forza vivificatrice della parola è lo strumento potente che permette di affrontare dignitosamente e combattere la vita. Esercitare l’insegnamento come un ministero, educare con amore e non con l’imposizione, questi erano i principi ispiratori che lo animavano, corroborati da una carica umana non indifferente di pazienza e dedizione totale. La sua attività, spesso, iniziava alle sette di mattina per concludersi alle undici di sera; Curasì non insegnava per vivere, ma “viveva per insegnare”.

Sempre pronto ad aiutare chi ne avesse bisogno, non guardò mai in tasca ad alcuno per vedere se potesse pagargli la lezione. Le sue lezioni spaziavano dal latino, dal greco, dal francese (materie in cui era specialista) alle più svariate discipline, matematica, geografia, storia, psicologia, filosofia, ecc.. Per stare dietro ai numerosi alunni, spesso, studiava anche di notte. Il suo animo era uno scrigno di virtù, in cui oltre alle qualità di ottimo insegnante, potevasi attingere a piene mani bontà, generosità, altruismo, profondo rispetto della persona umana. Generalmente suol dirsi che la bontà nasce con l’uomo, i suoi familiari raccontano che all’età di due anni circa, una mattina, rimase a letto con la febbre; la sorella Rosalia andò a portargli il latte e trovò il piccolo Salvatore con il crocifisso, che aveva staccato dal muro, in mano. Sorpresa gli chiese: “Salvatore, cosa stai facendo?”, ottenendo come risposta: “Il Signore si è stancato di stare appeso con le braccia aperte, voglio togliergli i chiodi per farlo riposare…”. La sua riposta sensibilità, il suo vivere la solidarietà, forse muovevano da questa consapevolezza…. Credeva fermamente nell’amicizia, e sapeva farsi amare come un bambino; il nipote Rocco, racconta, che ancora ragazzino accompagnando lo zio a Ucria dove andava a trovare un amico che aveva condiviso con lui la lunga prigionia in India, rimase profondamente colpito dalla gioia che l’amico provava a trovarselo davanti: “Schizzava gioia da tutti i pori, non smetteva di abbracciarlo, di guardarselo, di chiamarlo affettuosamente”. Sarebbero ancora molti gli episodi, le vicende, che potrebbero raccontarsi e raccontarci Curasì, ma credo che quanto già detto sia sufficiente per delineare la forte personalità del “nostro”. Nei ricordi dei suoi alunni e di quanti lo conobbero, Curasì vive come un maestro eccellente, uomo preparato, di grande cultura e filosofia, intelligente, fattivo, nobile, caritatevole, umile, per nulla superbo. A forgiare la forte personalità del Curasì, sicuramente influì anche l’esperienza amara e dolorosa della grande crisi dei primi anni 30, in cui per mantenersi agli studi, dovette affrontare, insieme con la sua famiglia, non poche privazioni e sacrifici, ma la dura “scuola della necessità”, anziché rattristarlo lo rese più attento ai bisogni degli altri, affinché non avessero a patire quanto da lui sofferto. Questa esperienza maturò la concezione secondo cui un uomo, se è ricco di valori, di principi, anche se viene liberato dall’involucro molle dell'”avere”, non rimane vuoto, è il suo stesso “essere” a contenerlo. Il Poeta Ciccino Mancari in ricordo di quegli anni e dell’amico Curasì, gli dedica una poesia (poesia classificatasi, tra l’altro, al terzo posto, nel 1984 a Roma, al “Premio Nazionale di Poesia Regionale” curato dal Gruppo Artistico Culturale Monteverde), poesia che intitola “Fratello”, e scrive: “Calava dietro i monti il sole, / e si vestia a strisce / di rosso chiaro il cielo. / Moriva – lento – il giorno. / Ritornava il sole, / e riprendeva la speranza in cuore. / Fumare, / sotto limpidi raggi di luna, / in due, una sigaretta. / Guardare… / spazi – orizzonti – / e, nel cielo turchino, / il carro dell’Orsa Maggiore. / Ricordi, fratello, quei tempi?! / Uomini… / sotto il peso di pensieri dolenti. / Uomini, fratello, / Uomini nell’ombra / ma uomini viventi.

Accostarsi alla nobile figura del Curasì e riuscire a trattenere la commozione è un’impresa ardua per chiunque, specialmente per me, che non ero ancora nato quando lui aveva finito di tracciare l’arco della sua vita; accostarsi, parlare del Curasì, senza averlo conosciuto, seguendo la linea di una ricerca attenta e severa, assume un significato particolare; è con questo gesto semplice che il Curasì, il suo prezioso esempio, viene affidato alle generazioni successive: “Debole è la memoria che non ha la forza di sopravviverci, di sopravvivere oltre il ricordo”; ed è con questa certezza che guarderemo la targa che da oggi su questa piazza porta il suo nome, guarderemo al suo luminoso esempio, alla dirittura morale di un uomo che non scese mai a promessi né a compromessi, ma rimase sempre se stesso, nella sua dignità personale e professionale; guarderemo a un uomo che dedicò la sua esistenza alla famiglia e al prossimo, e che pur lavorando strenuamente, non si arricchì, né approfittò mai di alcuno, tanto che potremmo mettergli in bocca le stesse parole che Cervantes, mette in bocca nel “Don Chisciotte” a Sancho Panza alla fine del suo governatorato: “Andandomene, nudo, come me ne vado, in effetti, è chiaro che ho governato come un angelo”; guarderemo soprattutto al Curasì, come al “Maestro buono” che nella sua vita dimostrò che la bontà non è una parola vuota, una “flatus vocis” ma può divenire una pratica quotidiana calata nella dimensione concreta del vivere!

Antonio Giovanni Lima